mercoledì 24 aprile 2024

Mercoledì 24 aprile 2024: IL MIO RAPSODICO "SPOON RIVER" CHE MI PORTO NEL CUORE... (continua)

Ho il biglietto per un viaggio

che promette il Giardino come destino,

l’abitudine di vagare sulle ceneri

per non dimenticare il fuoco

e la voce di mia madre che di sera

mi avvolse con un fruscio di palme.

Ho anche l’obbligo di restare viva,

di preservare l’intoccabile

affinché il mondo continui ad essere

ciò che non sono.

Ma vivere in cerchio come una lancetta

di orologio finisce per stancare.

Quanta ironia: dover invecchiare

per riprendersi alla fine l’infanzia,

dover morire

affinché nessuno possa rubarmela.

(Lauren Mendinueta, “Ho il biglietto per un viaggio”)

 È un esergo che sintetizza la vita tra urne e culle perché tutto muoia e tutto rinasca per perpetuarne nei millenni il canto. E io riprendo a raccontare per continuare con te, nonno amatissimo, a viaggiare tra gli impervi dirupo e gli immensi prati della nostra terrena esperienza: La vitaLa morte. 

Per questo, dopo un altro lungo silenzio, sto riprendendo a scriverti? O chi o cosa mi spinge a farlo? Perché? Forse per via degli anni che m’inseguono senza tregua. E la morte è già un inevitabile richiamo. Forse perché i figli stanno scoprendo qualche filo argentato nei loro capelli. Forse perché, ancora una volta, molti scenari sono cambiati nella nostra costellazione familiare. Alcune stelle si sono spente, altre accese. E, intanto, a riempire i vuoti lasciati da Primo e Pinuccio e, ancora prima, da mamma, ecco nuovi bimbi a riaccendere la vita e la speranza nella casa del gelso e delle rose, ormai di Anna Maria; nuovi virgulti nella “casa di sopra”, abitata dalla famiglia di Pino, nonno di altri due meravigliosi nipotini gemelli, Annalù e Vincent, figli di sua figlia Anna Maria…; Lizia è diventata nonna di Silvia, una bimbetta tutta moine e sorrisi, grazie a Gianfranco e LeilaFabrizio, invece, vive con lei e si prende cura dei suoi giorni con devozione filiale. Anche Lizia da alcuni anni scrive e pubblica poesie e interventi critici. Anche lei vive intensamente il mondo dell’Arte in tutte le sue forme, con impegno, costanza, energia. E si circonda di tanti amici che l’apprezzano e le vogliono bene. Ha conservato la sua personalità discreta, schiva e silenziosa che la connotava da bambina. Si dischiude ad ampie tenerezze con la nipotina, e per lei ha scoperto nuove ragioni di vita. 

Mi piace raccontarti di noi anche se so che di noi conosci tutto: passato, presente, futuro. Anche le date del nostro raggiungerti dove è solo Luce. È forse il privilegio di stare dall’altra parte del “muro d’ombra”. E sai anche, perché tu me lo hai insegnato, che tutto passa e tutto si ripropone a legare generazioni diverse e stessi sentimenti. Ogni esperienza umana è individuale e universale. Per questo la tua storia è la mia e di tanti altri. Storie di luoghi, di strade, di case, di voci. Di mutamenti. Trasformazioni. Generazioni. Ritorni. Riproposizioni di vite e di umane vicende ad ogni vita legate.

Ombretta ha chiuso col suo matrimonio naufragato e ha aperto il cuore a un nuovo amore che le illumina occhi e giorni: sogni e realtà da vivere in due. E il suo compagno, Riccardo, “cuore di pane” e sorriso di chitarra, le/mi procura serenità, le/mi offre sicurezza e protezione. Hanno un nido d’amore che si rischiara di albe e si accende di tramonti; chiacchierano con le stelle e si appropriano della luna per farla brillare tra le zampette di Rosco, Lamù e Lilith, i tre micini che rallegrano la loro quotidianità con mille arguzie e infinite fusa. Stare nella loro casa è come vivere di nuovo la poesia del nostro antico stare insieme quotidiano: amarsi e comprendersi e sostenersi… E questo è bello e mi conforta.

Giuliano ha da alcuni anni una nuova compagna, Viviana: bella e allegra conchiglia ad accoglierlo con complicità, quasi canto di sirena ad incantare il mare. Insieme colorano di mille avventure e vivaci allegrie gli annuali calendari, anche profumati di ottimi manicaretti nella cucina della pazza e accogliente casa, che vorrebbero guscio solido e duraturo per il loro amore. Avevano un cane femmina, Gaia, compagna da tempo immemorabile di Viviana, e che ora non c’è più per via dei tanti anni e dei numerosi danni alla sua salute sempre più malandata. Ma loro le hanno prestato tante cure e le hanno dato tanto amore, come avrebbero fatto con un bambino o una persona anziana. E anche questo lascia ben sperare ad una madre che segue da lontano e trepida e non si arrende, pur invecchiando.

Daniela sta attraversando un periodo difficile tra mille impegni di lavoro e anni di solitudine subìta e cercata, per via di un amore che le ha lasciato amarezza, diffidenza, disincanto. Ha, però, una deliziosa casetta tutta sua e varie attività professionali che l’affaticano, ma le procurano anche notevoli soddisfazioni. Vorrebbe una situazione più stabile e sicura in tanta precarietà. E io sono fiduciosa. “La vita è una ruota”, dicevate tu e la nonna per rincuorarvi e rincuorarci nei momenti bui della vostra e nostra non sempre facile esistenza (non sempre si può stare in alto non sempre in basso la ruota gira). Sì, girerà anche per lei. Ne sono certa. La vita distribuisce gioie e dolori. Occorre resistere. Non mollare mai. Andare avanti. Anche lei ha un gatto tenerissimo e tremebondo, sempre in ansia per qualche catastrofe che non sa dire e non saprebbe scongiurare. È Zaghiro (o Zaghi) ora a farle compagnia e a movimentare le sue notti. Gli animali domestici trovano tra molti giovani, oggi, braccia d’amore ad accoglierli per ovviare anche ai bambini che non vogliono o non possono cullare per via di un mondo sempre più precario e complesso, violento e disumano che fa paura. E, anche se questo non lascia molti margini alla speranza, può darsi che offra qualche appiglio alla evoluzione positiva della società. Tra tante brutture e cattiverie spiragli di luce. E proprio Daniela, proprio lei, che ora ha bisogno di carezze materne, mi ha fatto ancora una volta un dono dolcissimo: mi ha dedicato “La cura”, una canzone meravigliosa di Franco Battiato.

Il cuore ha avuto un sussulto. Da tempo non mi capitava. Che bello il prendersi cura di qualcuno. Ma è bello anche sentirsi tra le braccia protettive di qualcuno e lasciare che siano gli altri a prendersi cura di ogni cellula del tuo corpo, pur sapendo che sono quelle invisibili dell’anima a fare più male. Ho ritrovato la sensazione di essere al centro di quell’universo d’amore che formavamo io e te. Ma anche la vibrante/dolente sensazione del dolce naufragio leopardiano che non sempre viene interpretato nella sua abissale possibile verità. Non di pessimismo, come si è soliti dire, ma di infinito, deluso amore per la natura il poeta parla. Il suo immergersi beato in essa fa da contraltare alla nostra finitudine sempre in agguato, mentre egli avverte tutto l’infinito dentro di sé, quello che va ben oltre gli orizzonti che “nel pensier si finge”… (ma è solo una interpretazione personale, che anche tu, ora, potresti smentire o confermare). Forse ho ripreso a scrivere anche per questo. Forse perché i nipoti sono cresciuti e si prendono cura di me e sono loro ora i portatori di sogni, i cercatori di stelle contro i muri della notte. Forse perché è giunto anche per me il tempo del non avere più tempo: ‘sono io ora in prima linea’. SONO INVECCHIATA COL ROMANZO CHE PARLA DI TE E DI ME. DI NOI. Come avrei potuto concluderlo quarant’anni, trenta, venti, dieci anni fa? Era necessario invecchiare perché me ne prendessi cura come si fa con un figlio. TU MIO NONNO MIO PADRE MIO FIGLIO.  Per circa cinquant’anni ti ho portato dentro. Ora è tempo di portarti alla luce. Ora, solo ora, è il tempo giusto. Ora che mi sei tetto di stelle e culla di favole . Dimora di ogni mio giorno che si fa presto sera. Tra tante perdite e tanto dolore.

E, infatti, giunse anche il tempo di dire addio a Nonna Francesca. Solo qualche anno fa ho perso anche lei, che io chiamavo “mamma” perché meritava, incondizionato, il nostro amore di figli, sia pure acquisiti, perché mai ci aveva fatto mancare il suo amore. Era d’inizio estate. Eravamo in vacanza. E lei, ormai novantenne, decise che era tempo di lasciarci e, nell’arco di pochi mesi, prima che l’estate finisse, si spense. E a nulla valsero le mie parole d’incoraggiamento a resistere perché avevamo ancora bisogno di lei. Quasi quotidianamente abbandonavo il mare e cercavo con Ombretta di raggiungerla per restituirle l’amore donato, ma questo non era bastato a restituirle la voglia di vivere, dopo novant’anni di dono di sé agli altri. E di inevitabili ferite, delusioni, amarezze, che ci celava.

 Perdite e ancora perdite. Senza aver perso per fortuna il senso magico del mondo e della vita. Ritengo oggi che la mia esistenza sia stata costellata più di prodigi che di esperienze negative. Persino queste ultime, alla fine, mi sembrano salutari perché mi hanno insegnato a crescere e, in qualche modo, a diventare più forte, quasi coraggiosa. Impavida anche di fronte alla morte. Ancora oggi “leggo”, nei sogni che si aggrovigliano e si dipanano, segni e simboli della gioia e del dolore. Occorre ritrovarne ogni volta il bandolo per scongiurare nuove ansie, nuovi timori. E riscoprire la meraviglia di esserci in ciò che è, muta e ridiventa uguale. Con la dovuta attenzione a tutti gli orizzonti possibili da afferrare per continuare a vivere, anche quando si ha voglia di lasciarsi andare. NON DEVO PERDERE MAI LA CAPACITA’ DI SOGNARE… SOLO COSI’ NON SENTIRO’ L’INUTILITA’ DI CONTINUARE… (ultimo mantra?)E così ho ripreso a scrivere con l’imperativo categorico di completare il dono prima che. Prima che nuovi cambiamenti stravolgano quelli in atto. “Zingara anch’io errante in un universo frantumato”, come l’uomo contemporaneo descritto da Jacques Monod. Già nell'arco di questi ultimi cinquantasette anni dopo di te, quasi tutto è cambiato ed io mi ritrovo estranea in un mondo che non è più il mio e soprattutto non è il tuo. Ma devo pur fermarmi da qualche parte per ritrovarmi… E, come vedi, non conto neppure più i calendari. Non ne sento più la necessità. Oggi confondo ormai i vivi con i morti e viceversa. Non vale più la pena contare le assenze. Basta fare attenzione, per quanto possibile, alle presenze. (Ora che sono invecchiata anch’io… il mondo cambia oltre il mondo che resta. (…). Certo, il mondo cambia inavvertitamente, giorno dopo giorno, sotto i nostri occhi e noi ne ignoriamo il cambiamento fino a quando, improvvisamente, abbiamo la percezione che nulla è come prima o forse ne è rimasto ben poco. Anche dove credi di avere le tue radici. Nel nostro paese dei molti ritorni non ci sono più le stesse persone conosciute o amate o soltanto incontrate per caso. Non ci sono più gli stessi campi, le stesse strade, la stessa periferia o gli stessi negozi, le stesse case, gli stessi palazzi, lo stesso viavai, le stesse gonne e scarpe, gli stessi cappelli, le stesse canzoni, le stesse voci e gli odori e i rumori e persino l’atmosfera, che tutto racchiude in lontane nostalgie e vivifica con improvvisi ricordi. Non ci sono più i panni gonfi d’aria e di pulito ai balconi dell’infanzia né i cortili aperti alle strade amiche né gli schiamazzi dei bambini sui marciapiedi alla controra. Ora assordati da macchine e assaliti dal nero di marmitte fumanti. (…). Oggi, in tutti i paesi che attraverso, sono pochissimi gli usci dischiusi   d’estate con i vecchi a raccontarsi seduti sui marciapiedi ad un passo da casa. Non ci sono più i vecchi per strada. Anche se i vecchi sono tanti e i bambini sono pochi. Ma non si vive più per strada come un tempo. Il tuo tempo è irrimediabilmente perduto. Ci sono macchine e ancora macchine. E un andirivieni frettoloso. Senza neppure un saluto. Nessuno ha più tempo né per sé né per gli altri. Persino i ragazzi s’ignorano tuffati nei loro smartphone anche quando camminano. Le braccia tatuate come solo i carcerati, un tempo. Anche Giuliano, lo sai, non ha saputo resistere. Fa parte della generazione allevata a merendine e Nutella, con i cartoni animati e le guerre stellari e gli ufo nel giardino e la paura dimenticata (heidi heidi ti sorridono i monti… dolce remì… anna dai capelli rossi… jeeg robot d’acciaio… goldrake e l’alabarda spaziale e mazinga e…)Teneri cartoni animati di prima generazione, in cui c’erano quasi sempre bambini orfani o abbandonati con un nonno come te oppure con tante persone di cuore che se ne prendevano cura, in una natura incontaminata e felice… bella da guardare. Da vivere. Poi, arrivarono dall’America tutti i meravigliosi cartoni animati della Walt Disney a colmarci di bellezza, musica, fantasia gli occhi e il cuore… E più tardi i videogiochi (pong… tetris… nintendo… spizzico… commodore 1 e 2 e 3 e 4 e la play station 1 e 2 e 3 e 4… e via via fino ai nostri giorni…) per trattenere in casa i bambini e i ragazzi ed evitare così i pericoli della strada, senza dare fastidio ai genitori sempre più alle prese con il loro lavoro e la loro realizzazione nel sociale. I sottani e le case a pianterreno furono divorati dai “grattacieli” di sei-sette piani con gli ascensori e le porte di casa chiuse e ostili ad aprirsi agli altri per fare amicizia o andare lontano. Non più i giochi sui marciapiedi; non più i campi in cui scoprire gli ulivi e i mandorli e i ciliegi e “rə viòulə e rə cəcàlə e rə gəsìppə də fòurə” (le cetonie e le cicale e i grilli); non più i nonni come te a raccontare favole e altre storie; non più le nonne come nonna Angelina con “il tuppo” e i capelli bianchi e il grembiale mille-usi. Erano ancora molti i nonni e le nonne   raccontafavole come te. Oggi non più. I nonni di oggi hanno fatto il Sessantotto e portano ancora i radi capelli con lunghi astenici e malinconici codini, l’orecchino al globo sinistro e parlano, come i lontani figli dei fiori, di rivoluzione e d’avventura. Sono colti, supponenti, spesso arroganti. Hanno fumato lo spinello e occupato le università, probabilmente hanno anche sniffato altre droghe, che nel frattempo sono diventate la piaga dei nostri giorni per ragazzini, giovani e adulti. Gli anziani sono impegnati nei tornei di burraco e scarsamente propensi a giocare con i bambini o a raccontare storie. A raccontarsi. Vestono come i giovani e hanno capelli neri e biondi e un abbaglio di denti nuovi e di bocche senza sorrisi. Pure, guai se non ci fossero. (…)

E domani viene dal Cile a trovarmi il mio meraviglioso amico di oltre quarant’anni Germàn Rojas! Una giornata intera fino a dopodomani tutta per noi. Per raccontarci. L’amicizia, quella autentica, è come un’eterna primavera. Sai che rinasce sempre e ti regala sempre il sorriso dei fiori… Ma intanto oggi è un giorno particolare: 4 - 4 - 2024. E il 4 indica la stabilità della famiglia, la protezione della casa, la solidità degli affetti veri. Sono cose che amo profondamente. Ma Buon 25 aprile!!! Bella Libertà a tutti! A presto. Angela/Lina

martedì 23 aprile 2024

Martedì 23 aprile 2024: IL MIO RAPSODICO "SPOON RIVER" CHE MI PORTO NEL CUORE... (continua)

Ed ecco la Giornata Mondiale del Libro. ben vengano queste Giornate Mondiali a rinverdirci memorie che andrebbero perdute come la maggior parte dei giorni vissuti che si perdono spesso nella fitta nebbia del passato non tenuto in vita da una emozione, da un sogno, da una nostalgia. Il Libro. Quanti libri letti e dimenticati. Quanti libri a scaldarci ancora mente e cuore. Quanti libri regalati con dedica e un fiore. Quanti libri prestati senza ritorno. Quanti libri impolverati e libri addormentati nella loro custodia in attesa del risveglio. E libri perduti e libri dispersi. Libri ricomprati per una frase, una parola, un silenzio. Libri con note a margine per non dimenticare. Libri che raccontano anche di noi. E tanti libri scritti da me e da Primo che raccontano di noi due.

Il racconto di noi due. La nostra storia al passato. In una casa nostra al passato. E, in quella casa, i suoi tentativi d’incontro spesso fallimentari e nuove chiusure. Al passato. Disperati silenzi. Non ho più saputo dei suoi pensieri. Lui ignorava i miei o forse li intuiva. Ore di silenzio nei nostri giorni quasi estivi o autunnali, seduti vicini sulle sdraio in terrazza senza scambiarci una parola, chiusi noi nei nostri pensieri di rimpianti, nostalgie, sogni senza più un filo arcobaleno ad unirci.

Un tempo “eravamo ricchi di tutto quello che abbiamo dissipato”, sosteneva il poeta del primo Novecento Renato Serra, ed ora non ci rimaneva che il silenzio. Non il silenzio che amavamo in cui era più facile ascoltare le nostre anime. In quel silenzio della sera io ritrovavo l’atmosfera d’intimità e d’amore che si creava nelle nostre antiche sere, quando al buio, rischiarato dalla luce del crepuscolo, con i nonni respiravamo sussurro di preghiere, il rosario quotidiano, seduti dietro i vetri della porta che s’affacciava sul cortile. Ed era un silenzio d’anime tra le parole del cuore. Anche io e Primo avevamo vissuto per anni quel silenzio che ci univa e ci cantava dentro.

Se torna il silenzio/ al di là della strada/ allora parleremo piano/ muovendo appena le labbra/ e il respiro sarà breve/ come la distanza/ tra le nostre mani./     Se torna il silenzio/ Parleremo con gli occhi,/ antichi gesti/ fioriti sulla pelle,/      ma saremo pronti/ poi/ a chiuderlo/ in fondo ad un armadio

per guardarlo/     dopo/ quando l’ansia sarà placata/ sotto le lenzuola/ vinte/ e segnate/ dal nostro amarci. (Primo Leone, “Se torna il silenzio”)

Poi lo avevamo perso per strada il silenzio buono e ci era venuto incontro suo fratello, il silenzio cattivo, quello che divide e non perdona. Il silenzio del rancore e delle parole mancate, taciute, disperse e mai più ritrovate. Sì, il silenzio cattivo che, se si protrae a lungo, non riesce più a ritrovare le parole per creare spiragli nella spenta sintonia, per riaccendere dialoghi con l’ultimo fiammifero dimenticato nella scatola dei ricordi e dei progetti. E tutto tace. Anche il cuore. Ma, oggi che il tempo si è fermato sul suo tempo finito, che il mio tempo si è dilatato pur scorrendo sempre più in fretta tanto da farmi temere di non averne più abbastanza per districare nodi sempre più pressanti e dolorosi nella nostra casa e nella mia vita, doppiamente responsabile di quella dei miei figli, oggi mi chiedo sempre più dei suoi silenzi, del suo mondo, dei suoi pensieri. ‘Cosa pensasse? A cosa o a chi rivolgesse la mente e il cuore? Sempre più chiuso nel bunker dei suoi interessi e delle sue passioni senza più il fuoco giovanile e della maturità a rinfocolarli. Quali i suoi ricordi, i suoi sogni, i suoi progetti? E quali e quanti? E le sue amarezze, le sue emozioni, le sue delusioni? Includevano ancora me o mi escludevano?’ Oggi che il suo tempo si è fermato e che il mio si è dilatato, oggi mi chiedo perché abbiamo perso tanto tempo, tutto il tempo che ci rimaneva, sprecato nel silenzio, senza comunicarci il cuore per sentirci vivi. E uniti. Indispensabili l’uno all’altra come in realtà eravamo, perché nonostante tutto eravamo incapaci di scrivere la parola fine alla nostra storia. Di prendere strade diverse. E non per quieto vivere. Non per abitudine. Come spesso capita tra coppie di lunghe stagioni insieme. Noi eravamo “l’amore necessario”, come dicevano del loro amore, aperto a mille venti e a mille incontri altri, Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir. Lui, appena entrava in casa, mi chiamava: “Lina, dove sei?” oppure chiedeva a Raffaella: “e tua madre dov’è?”. Io facevo altrettanto ad ogni mio rientro, anche se con l’eterno timore di un suo ruggito, di una sua zampata a raggelare intenzioni e slanci di passione o di semplice affettuosità. Di tanto in tanto, adottavamo qualche nuova strategia per riscoprire complicità perdute, come quando, ormai alle prese con gli acciacchi inevitabili degli anni della neve e del gelo nelle ossa e con i quotidiani lamenti per i nostri “dolori di quando mai”, c’inventammo “il giorno del non-lamento”, il venerdì, in cui nessuno dei due avrebbe dovuto dire neppure un “ohi!”. E per alcuni anni fino a quella notte dell’inevitabile lamento, mantenemmo il rigoroso silenzio, fragorosamente interrotto il sabato con tutti i centuplicati “ohi!” soffocati il giorno prima. E scoppiavamo a ridere per quella tregua e quella rinnovata autoironia che ci univa ancora. Quanto vitali sono state sempre le risate nelle case antiche e nuove da me abitate.

(Se si è ancora capaci di ridere insieme, in qualsiasi rapporto, gli screzi si ricompongono, i muri crollano e le montagne d’incomprensione si appianano). Sì, sapevamo ridere di noi. È stato uno dei collanti più forti a tenerci uniti. L’altro, la creatività moltiplicata per due e data in eredità ai figli.  Tutti e quattro ne portano il segno come scia luminosa ad attraversare i nostri cieli, vicini e distanti:

Raffaella è una straordinaria presentatrice e coordinatrice di eventi culturali nonché delicata scrittrice per l’infanzia e i ragazzi e per adulti col cuore bambino.

Ombretta è una bravissima “fumettara” o “fumettista”; è anche organizzatrice di musical famosi e di altri inventati e scritti da lei per gli spettacoli che si vivono coralmente nella scuola, dove insegna con impegno e creatività.

Giuliano è un fuoco d’artificio di battute, del paradosso, dell’ironia e dell’autoironia sia sui social sia via radio. Ora è anche intrattenitore e speaker in una importante radio della Capitale. E scrive divertentissime ministorie che definisce “true story”.

Daniela già da ragazzina ha scritto intensi e originali racconti, che feci pubblicare come dono per i suoi diciotto anni. Poi, aveva cominciato a scrivere con suo padre un romanzo a quattro mani, molto particolare, ormai interrotto. E io continuo a sollecitarla perché riprenda a dipanarlo con l’assenza/presenza di chi non può più fisicamente condividerne la scrittura. Sdoppiandosi e ricomponendosi in una unità che possa racchiudere il respiro di suo padre e il rimpianto di lei, sua figlia, che ultimamente ha scritto per lui “darei nove anni della mia vita per vivere anche un minuto del tuo ultimo giorno”. Non sempre la morte delle persone amate ci distrugge, come era capitato a me dopo la perdita di mio nonno, spesso ricompone i fili scompaginati della nostra esistenza.

Ma in principio fu la divisione. Ci divise la notte di quell’addio tenero accorato crudele. Primo, sempre preso da sé stesso, in quegli ultimi minuti aveva pensato esclusivamente a me, a restituirmi parole e canto del suo amore. Quasi un risarcimento. Lui, che alcuni anni prima, quasi ipotizzando profeticamente la sua morte, aveva scritto versi di incredibile generosità: … Non farmi promesse

che manterrai/ nel frastuono del silenzio/ e non vestirti di nero/ - come dicono -/ e di dolorosa allegria

No/ non tendermi la mano/ e non lasciarmi alla pietà della memoria/ quella che non mi appartiene

e che si maschera di nostalgia/ facile preda/ della incertezza dei sogni./ Non lasciarmi parole pensieri timori/ maldestra eredità/ di quanto non mi spetta/ di quanto non mi aspetto/ girovago di ciò che diventai/ prima che le strade/ mi stringessero d’assedio… (Primo Leone, stralcio della poesia “Dove non sono mai stato”, Lontano da ieri, raccolta poetica postuma, SECOP, Corato 2010)

Primo generoso a sua e mia insaputa?

I nipoti, oltre a Nicola e Anna Paola, lo ricordano così: pieno di battute per accendere una loro risata soprattutto durante le vacanze insieme. Lo ricordano per i suoi piatti estrosi e appetitosi; sempre pronto a fare dei giochi di abilità e creatività con loro; sempre felice di fotografarli o di riprenderli con la videocamera che solo lui possedeva; sempre con la voglia di sorprenderli con i mille oggetti insoliti e straordinari di cui amava circondarsi. Con i primi videogiochi che solo nella nostra casa erano disponibili prima che nelle loro case. E lui era sempre lì a divertirsi da matti giocando con loro.

Io, invece, sempre oppressa da immane lavoro, che mi piaceva e mi sfiniva, ero perlopiù estranea a nipoti e figli, alle loro ore di svago, ai loro giochi, agli sceneggiati per bambini e ragazzi che seguivano in TV (Heidi, Anna dai capelli rossi, Ape Maia, Remi, Furia, Zorro…), e filtravo ormai i giorni del capo tribù solo tra fitte maglie di negatività. Ma, con gli anni, anche lui non ebbe più tempo e più voglia di scherzare e ridere con loro. Stavano crescendo. Avevano tutti i loro impegni e appuntamenti fuori di casa. A me mancava il tempo e la serenità per seguirli nella loro crescita, nei loro sogni e bisogni, nelle loro prime esperienze d’amore. Potevo ascoltarli solo per breve tempo, la sera. Ci raccontavamo quello che ci potevamo raccontare. Si era perso il tempo lungo dell’incontro e del racconto. Non più focolari ad ascoltarci. Difficilmente riuscivamo persino a parlarci tra di noi… Primo diventava irresistibile solo fuori con i pochi amici che “gli andavano a genio”, oppure in una radio locale, dove si esibiva in una trasmissione tutta da ridere, “La gabbia del Leone” (bella la sigla: El Bimbo…). E, immancabilmente, mi dedicava, a fine trasmissione, una poesia, una canzone d’amore. E questo mi appagava. Mi faceva sentire amata. Mi sorprendevo qualche volta a pensare, nel nostro dialetto, un modo di dire tipico della nostra gente: “amarə də casə e allégrə də chiàzzə” (“cupo in casa e allegro in piazza”).  Pian piano anche i figli avevano preso le distanze. Ma i giovani, parenti o conoscenti, gli amici dei nostri figli continuavano ad ammirarlo incondizionatamente. Lo adoravano. Per la giovanilità dei suoi comportamenti, dei suoi hobby e interessi, della musica che ascoltava e dei film che amava. Per i guizzi geniali della sua ironia… (non fate domande se non siete in grado di capire le risposte… Non aprite la bocca se prima non l’avete collegata al cervello… Non è possibile che tu abbia mal di testa se non hai mai avuto la testa in testa…).

Solo dopo, la misura della sua assenza. Solo dopo, il vuoto.

C’è un vuoto come di giorni inutili/ che albeggiano senza luce richiamo di vento/ e un incessante battere di pioggia ai lucernari/ Mia compagna di notti insonni la pioggia/ quando ogni nuvola è appiglio di presagi/ più che le stelle in un precipizio di assenza/ C’è come un vuoto d’esistenza/ che brancola tra pensieri dispersi nel buio/ a darmi inesistenti coordinate spazio/ tempo del tuo starmi lontano “di là” dove mi hai detto/ d’aspettarmi oltre il confine/ perché mi sai indifesa in terra di lupi/

 “Io da sola mai” - ti dicevo d’improvviso -/ senza dare e cercare perdoni/ in una consuetudine di rabbia e dolore/ che ignorava il tuo cuore indifeso/ nel gesto d’impossibile ritorno/ a quel silenzio che ci univa/ e rendeva invisibile agli altri/ quell’alchimia di noi colma di passione// (di mani tra i capelli prima/ e dopo che si facessero amore) (a.d.l., “C’è un vuoto”, da L’ora dell’ombra e della riva, SECOP edizioni 2017)

E dopo Primo, ecco nel 2009 un altro volo, preannunciato, tra le stelle. Pinuccio. 20 febbraio. E mi sfugge l’ora. Pinuccio, compagno di vita di Lizia per oltre quarant’anni. Pinuccio, che al funerale di Primo aveva detto “queste sono le prove generali anche per me” fu buon (o cattivo?) profeta di sé stesso. Le sue condizioni di salute, sempre più malferme negli ultimi anni, ben presto si aggravarono con vari ricoveri e una lunga, devastante agonia fino al triste epilogo. Lizia alcune notti prima aveva sognato la data del suo lasciarci. E fu una morte annunciata. Difficile a credersi, ma spirò proprio quel giorno segnato di rosso e senza seguito. Sì, nella vita si registrano anche questi accadimenti inspiegabili con la sola ragione, e non li vivo con sgomento e apprensione solo io. Constatazione confortante, che mi dà quasi un respiro di normalità (ma cosa sarebbe poi la normalità?). Con lui perdevo un fratello, cui dovevo eterna riconoscenza per come si era preso cura di me, oltre che dei miei nonni, negli ultimi anni della loro vita. Sempre disponibile. Attento. Un sostegno. Un sollievo. Sì, quanto aiuto fraterno quando Primo era assente ed io caddi nel baratro della depressione di cui ho già parlato, ma anche dopo il matrimonio e la nascita dei miei primi tre bambini. Ogni volta che stavo male lui era presente. Come dimenticare! Non è possibile dimenticare neppure il suo sguardo di malinconica accettazione della vita. E i suoi scoppi di risate. Mi mancano i suoi sprazzi di allegria come esplosione di coriandoli ai nostri carnevali dimenticati.

Come mi mancano le battute di un grande amico perduto solo due anni dopo.

Il 2010: Bruno, che, con la sua meravigliosa compagna Ada e i suoi splendidi tre figli (Leo, Vania, Tonio, che ancora oggi continuano a chiamarmi zia), ha reso i lunghi anni della nostra amicizia una continua scoppiettante fanfara, tenera e maliziosa, di battute, di risate, di effervescente generosità.

Ma già prima di lui ho dovuto dire addio a Corrado, eroico marito di Maria, sorella di Ada. Di loro e della loro straordinaria storia d’amore, prima che sia troppo tardi, scriverò, per lasciare un altro richiamo ai giovani di oggi perché sappiano che il vero amore esiste ed io, anche tramite loro, posso testimoniarlo. Corrado è una promessa e una nostalgia. Maria, un canto di abnegazione. Bruno è altro rimpianto scolpito nel cuore.

È come in una sinfonia degli addii,/ Dapprima un oboe e un corno/ Poi il fagotto e un altro oboe/ Quindi l’altro corno e il contrabbasso,/ Ciascuno eseguendo/ Prima di terminare/ Il suo piccolo assolo:/ Lasciando il movimento spegnere/ Sull’ultima battuta/ Dei violini. (Franco Buffoni, “Separazione”, da Poesie, 2012)

Una intensa rivisitazione di un grande poeta contemporaneo della “Sinfonia degli addii” di Haydn e dei sui musici… Suggestione di un concerto particolare che ha suggerito ad una mia amica, straordinaria e dolcissima poetessa, il titolo della sua dolente e luminosa raccolta di poesie I musici di Haydn (Ada De Judicibus, SECOP edizioni).

<E ora riprendo a scriverti. Mi ero ripromessa di scrivere solo dei momenti di gioiosa spensieratezza e delle esperienze belle vissute nell’arco della nostra vita (mia, tua e degli altri), e invece mi accorgo che questi ricordi sono ben più tristi di quelli del precedente volume a te dedicato. Non sempre si possono mantenere promesse e buoni propositi. Qualcosa, al di là della nostra volontà, ce lo impedisce.

Dopo di te, del resto, ho dovuto sempre più confrontarmi con la morte, io che ne avevo terrore e cercavo di tenermene lontana. Giunge anche il tempo che la vedi fiorire come gramigna ad ogni passo e non si può più ignorarla o fare a meno persino di parlarne. E qui non faccio che parlarti di morte e di morti. Come se la vita non fosse niente altro. Oppure mi stesse precocemente presentando il conto... (...)

Buona lettura a tutti con tanti libri che ancora aspettano il nostro sguardo, le nostre mani, i nostri pensieri, le nostre riflessioni, i nostri buoni propositi di far tesoro dei Libri migliori per realizzare i nostri sogni e di quelli che ci abitano accanto… A presto. Angela/Lina        

 

lunedì 22 aprile 2024

Lunedì 22 aprile 2024: IL MIO RAPSODICO "SPOON RIVER" CHE MI PORTO NEL CUORE... (continua)

Oggi è la Giornata Mondiale di Madre-Terra, e, prima di riprendere il mio raccontare per raccontarmi e raccontarvi, penso che sia un atto di amore e di appartenenza dedicarLe qualche verso e invito tutti a farlo. Sarebbe bello riempire il nostro blog di poesie dedicate al cuore di chi ci è culla e urna: Madre senza confini e senza cieli divisi/ Madre “d’erbe famiglia e d’animali”/ canta il Poeta che de’ I Sepolcri conobbe/ il pianto disperato e gli “amorosi sensi”/ che “della terra e del ciel traveste il tempo”./ Inno alla vita di terra-cielo-mare in perenne dialogo/ e a grandi imprese/ a renderci immortali/ in sua difesa.// Terra-Madre Madre-Figlia-Madre-Madre-Madre Terra di mia Madre/ piegate/piagate le ginocchia a baciare/ i tuoi occhi di pietra viva/ smeraldi d’alberi/ al primo canto delle allodole in volo/ tra gli ulivi/ al primo refolo di vento/ sui fiori a primavera/ in un tramonto rosso rubino/ che non conosce sera/ ma sa del bisbiglio antico delle stelle/ e la risata d’argento delle follie d’amore/ al plenilunio che intenerisce il cuore / e negli occhi del mio gatto/ si specchia e s’addormenta sognando…Ma è tempo di riprendere a ricordare…E poco dopo ho perso anche Rina, la sorella di Primo.

Rina, che coraggiosamente aveva lottato per alcuni lunghi anni contro il mostro che le stava corrodendo il cervello, sopportando interventi dolorosi e prostranti, ora ci aveva lasciato, dopo aver preparato con amore il matrimonio del suo unico adorato figlio, Domenico, straordinario violinista e concertista, e dopo averlo portato con tanta fierezza e tanto orgoglio all’altare. Missione compiuta. Ora poteva anche andare. In silenzio. Con Michele, suo marito, ad assisterla in silenzio. Poi, solo qualche anno dopo, anche lui l’ha raggiunta per raccontarle di due nipotini meravigliosi, che aveva fatto in tempo a cullare tra le braccia. Ma lei sapeva già e gli sorrise, complice, felice di essere di nuovo in due. 

2008: Primo è andato a fare compagnia a tutti gli altri rimasti solo nel cuore il 4 giugno: due ore dopo la mezzanotte. Furtivamente. Ha lasciato il letto, la casa, le sue tele, i suoi innumerevoli strumenti elettronici, i suoi racconti, le sue poesie sempre più tristi e disperate, i suoi progetti di pubblicare ancora, i suoi sogni. I miei capelli. Le mie mani. I miei tormenti (dormi adesso, ne parliamo domani, ma perché mi devi parlare di notte e non di giorno? Dormi che è meglio…). Ed io ho continuato a non dormire e a scrivere per colmare ormai i vuoti di troppe assenze. Sì. Primo. che non temeva la morte. Che le faceva uno sberleffo ogni volta che entrava nella nostra casa. Ogni volta che la vedeva affacciarsi nella casa degli altri. (Perdemmo saluto e amicizia con alcuni coinquilini quando, alle grida disperate dei nipoti di una vecchina ultranovantenne nel nostro stabile, lui, sornione e irriverente, ci tranquillizzò gridandoci dalla tromba delle scale: “non è successo niente, è solo morta la nonna del primo piano”. E a noi che, pavidi per tanto pianto, eravamo dietro l’uscio socchiuso della nostra casa non sapendo cosa fosse realmente accaduto, si appiccicò addosso e nelle ossa un ulteriore sgomento). Lui era fatto così. Doveva ironizzare su tutto. E non risparmiava neppure la morte, che non lo risparmiò, visto che avrebbe potuto ancora contare calendari e scrivere e dipingere ancora e ancora godere delle albe e dei tramonti. Dei nipoti. Del mare. Primo. In poco più di mezz’ora, in quella notte d’inizio giugno, di pioggia sui tetti e di ciliegie sul tavolo in cucina, e di attesa di rivedere il mare, ho perso il mio compagno di vita con la sua ultima disperata dichiarazione d’amore“Ti ho amato sempre Ti ho amato tanto”. Del prima, durante e dopo quel lunghissimo giorno ho già raccontato tanto. Primo. La corsa contro il tempo. La pioggia del giorno dopo. La pioggia. Mi riporta a mio nonno. Riparto da lui per riprendere a sentirmi viva. E riparto dalla mia insonnia con cui continuo a fare i conti. Anche per questo scrivo così tanto. 

<Non dormo. Soffro d’insonnia da sempre. Ricordo che da bambina contavo i battiti del cuore nel buio che mi faceva paura e non sapevo andare oltre le dita delle mie manine e allora ricominciavo perché i battiti erano tanti e le mie mani erano solo due e non riuscivo ad andare oltre il dieci. Tu mi avevi insegnato a contare sulla punta delle dita, dapprima per indicare i miei anni: uno due tre… poi, per sapere il numero dei giocattoli: uno, la bambola; due, il cavalluccio; tre, il ferro da stiro; quattro, la cucina; cinque, il pianoforte… Prendevi le mie manine e aprivi ad ogni numero un ditino perché fosse più semplice contare, perché fosse più chiaro il numero raggiunto. Non mi potevo sbagliare. Il pugnetto chiuso era il numero zero. Poi, ecco tirare fuori il pollice e poi l’indice e poi il medio, l’anulare e il mignolo (…) e mi sfregavi il mignolino tra le tue dita e io imparavo e ti sorridevo appagata e mai stanca di ripetere il gioco per apprendere di più e meglio… Non dormivo e gli occhi in quel buio centuplicavano i fantasmi che si assiepavano sul mio letto e occupavano ogni angolo della mia cameretta, togliendomi il respiro. Per addormentarmi contavo, ma gli occhi non si chiudevano. Avevo bisogno della tua voce perché sapevo che sapeva fare la magia di accendere tutte le luci della mia anima e un canto di gioia mi saliva alle labbra prima di sognarti o di prendere forza e coraggio da te. Sempre presente nelle ore delle ansie e dei tumulti.  Non così quando pioveva. Allora era il suono cadenzato della pioggia a cullare i miei occhi. E la tua voce era un’eco che danzava tra le gocce del cielo, che venivano giù, e i miei pensieri colmi di te. Sempre così la pioggia. Anche oggi che non sono più bambina. Non dormo ma la pioggia mi calma. Mi porta da lassù fili d’acqua cui aggrapparmi per non naufragare e per tentare ogni volta la risalita. Mi porta la tua voce. Che mi offre un ombrello sempre più rabberciato, ma sicuro di rifugio e protezione. La pioggia m’intenerisce e mi rallegra. (…)> (da: A. De Leo, Le piogge e i ciliegi, I vol.).

Piove. Il cielo viene giù e, come da bambina, sporgo le mani oltre i vetri, che invece della primavera mi portano l’autunno in casa, per afferrarlo nelle gocce trasparenti e leggere che raccontano forse storie di lacrime o solo pioggia che cade, sussurro di parole lontane. Ripropongono un tentativo di rossoazzurro perpendicolare che è più un desiderio che un colore. Cadono gocce di cielonuvole sulle mie labbra assetate e sul viso proteso al fresco incanto. Cadono sul glicine in fiore del giardino che è un colore vero d'alberi di foglie di siepi. Fanno salire dal basso profumo di terra... ricordo lontano... il cortile... un inno di gelsi rossi e di rose che mi esalta e mi rincuora. La pioggia, a volte, può essere Musica d’arpe con mani d’angeli, Ritmo di marce di bimbi nel gioco del loro andare alla conquista del mondo, Voce antica in un richiamo d’altro tempo oltre il tempo (cielo a pecorelle pioggia a catinelle… rosso di sera bel tempo si spera rosso di mattina la pioggia s’avvicina… ed erano modi di dire… rosso di Sara Beltempo si spara… e diventava un dramma… quando piove e tira vento fra’ martin resta in convento… ed era racconto… marzo pazzerello se c’è il sole prendi l’ombrello… già proverbio con avvertimento… non saltare sotto la pioggia ché ti bagni tutta… ansia e preoccupazione e ammonimento… pio-ve pio-ve acqua di limo-ne… quasi un gioco quasi cantilena quasi voci di strada che entravano in casa e allagavano stanze e contagiavano allegria…e piove piove sul nostro amor… fu canzone e palpito del cuore e fu addio…). Mi piace la pioggia. Mi fa sentire meno sola. Accompagna la mia nostalgia. S’intrufola nella malinconia degli occhi e nei terrapieni del cuore a fatica costruiti. Poi tace e le stillanti foglie brillano di diamanti e rubini che il cielo sparge a piene mani. Splendore di luce rossodorata, che si frantuma nel canto di questo tramonto… e il passato ritorna a legarmi ai giorni andati che mai più saranno e che pure sono... Sempre così la pioggia... sempre così i tramonti pennellati in una follia di venti e di foglie ad avvolgere l’anima... Nella pioggia io ero... sono... rinasco...

<Tantissimi anni fa, una sera, seduta sul mio balcone, al quarto piano, respiravo l’autunno che si sbriciolava tra le mani di un bimbo colme di chicchi d’uva. Aveva labbra rosse e zuccherine, il bimbo, quasi un piccolo clown a sua insaputa. Si confondeva con i colori di settembre: l’oro antico dei capelli, il bruno intenso degli occhi, il rosa bruciato del visetto che tratteneva l’ultimo sole e le orlate nuvole leggere che assiepavano il cielo contro il tramonto. Una camiciola verde spento, quasi una foglia sospesa, a scoprire le gambette nude e scure. Il richiamo di sua madre precedette le ombre della sera, la corsa delle macchine lungo la strada, i passi di uno sconosciuto all’angolo di casa. Poi, venne la pioggia. Sottile. Fitta. Saltellante e leggera. Intrisa ancora di sole. La foglia autunnale di carne riccioli incoscienza fece un piccolo volo e scomparve dietro la voce amata. Rimasi sola. A guardare la strada. La faccia anonima di quelle case a più piani a limitarmi il cielo di sangue, trafitto di pioggia e da mille antenne. L’ultimo volo di sparute rondini verso la libertà d’altri orizzonti. E non seppi più se fosse un tramonto cosmico o personale sotto “le lacrime degli angeli” sui miei capelli, sul vestito, tra le mie mani stupite ancora di stupori. Ebbi cent’anni e nostalgia di ritornare bambina, quasi ad esorcizzare il buio che sentivo incombere sui frastagliati terrazzi e tra i miei pensieri, e che da anni aveva ingoiato la tua presenza. Sentii crescermi dentro un’ansia d’altri tempi. Era nostalgia di te. Mi mancavi più della mia infanzia.  Avevo bisogno di riproporti ai miei giorni, presente come l’alba dei miei bimbi, foglie tenere, trattenute nella serra luminosa e pavida della mia casa e, perciò, con meno voli della foglia sparita nel buio portone della sua casa. I miei figli non avrebbero mai ballato come me e te sotto la pioggia. Non sarebbero mai scesi per strada a saltare sulle righe tra le mattonelle. Non avrebbero mai sentito la tua carezza sui loro volti di zucchero e porcellana. Un abisso li separava da te. Sentii l’urgenza di scriverti per riportarti a me. Per chiederti di tornare e cominciai con la penna dei ricordi sul foglio stropicciato del presente: Nei percorsi del cuore ogni volta ricomincio da te, alfa e omega della mia vita. Solo in te è forse possibile ritrovarmi ancora. Riscoprirmi pagina bianca da scrivere. Da raccontare… E, nel raccontare te, racconterò la mia storia e quella di molti altri che ho incontrato guardato conosciuto amato ignorato subìto allontanato dimenticato ricordato. Racconterò… e tu ci sarai in un eterno presente dopo ogni tuo ritorno. Non raccontai. No. Quando rientrai in casa era già un'altra storia. Altro tempo. Persa in quel foglio stropicciato della mia vita di... Donnamogliemadre.insegnanteformatrice.scrittricepoetessasaggista a tempo perso, nei ritagli d’insonnia che facevo miei e mi pressavano con altre urgenze di progetti da realizzare, programmi da rispettare, illusioni ancora da vivere. Granello di polvere in sospensione nell’aria senza posarsi mai. Trascorsero così anni e anni ancora, nel vortice di nuovi impegni, nuove storie, nuovi incontri, nuove chimere, nuovi progetti. Nuove piogge a frantumare i miei cieli di ciliegi e mandorli e ulivi e canti di sirene che mi giungevano dal mare in un abbraccio di acque e di parole. Parole. Le parole da dire, da inventare, da scrivere, da correggere. Quasi la vita fosse un continuo errore da evidenziare da evitare. Da riproporre… Da dimenticare... Anni al massacro quotidiano di ossa mente cuore... Anni e ancora anni con baci e abbracci, più pensati che dati, ai miei figli: spalle bambine misurate dalle mie mani col metro del loro farsi sempre più tracimanti e imprendibili in giorni bambini di giochi e fiabe, in giorni adolescenti di scuola, scoperti tra macchie di rossi mestrui e prime ombre di nero sul mento, nelle camere separate del sonno e dei sogni, delle voci a raccontarmi, in brevi ore, le paure, l'attesa e i primi amori. E ninne nanne per la piccolina a scacciare lupi neri a creare dolci intese (fai la ninna/ fai la nanna/ ninnananna bambina/ fai la ninna/ fai la nanna/ fai la nanna mio tesoor/ sì fai la nanna o mio tesooor… patatà patatì patatina come te…/ bambina piccolina/ patatina/ col naso piccolino/ patatino/ tu come nelle favole/ sei nata sotto un cavolo/ in un mattino limpido/ sei nata tu…/ patatà/ patatì/ patatina come te… chi asciugava i pianti miei / mamma buona era lei,/ chi in cucina cucinava/ mamma cuoca canticchiava,/ io la sera nel lettino,/ mamma nanna a me vicino,/ mamma compagna poi,/non mancava mai… non si va in cielo non si va in cielo/ in pininfarina/ in pininfarina/ perché in cielo perche in cielo/ non c’è la benzina non c’è la benzina… (…)In silenzio, la sera, prima del chiudersi di occhi ansiosi sul buio della veranda, e un vago senso di paura allo sfinirsi delle nostre voci rapide e fugaci per il mio giorno stanco e senza incontro... (cosa ci raccontiamo stasera? del tuo cuore che batte per il ragazzino occhi di sole?... dei tuoi sogni di colori e segni sul foglio e parole da inventare? ne hai disegnati ancora con matita e fantasia?... c’era una volta e c’era… c’era una bambolina di cera che faceva compagnia ad una bimba che dorme con le sorelle sempre nuove e sempre quelle… oh quante belle figlie madama dorè o quante belle figlie… e io ne voglio una madama dorè e io ne voglio una… che cosa ne vuoi fare madama dorè che cosa ne vuoi fare? la voglio maritare madama dorè la voglio maritare… e ora cercate di addormentarvi cercate di pensare alle cose belle che vi piacciono al mare alle stelle ai fiori alle coccinelle e le farfalle alle persone che vi vogliono bene alle cose che vi fanno ridere e a quelle che vi fanno sognare agli angioletti…). Solo la pioggia a farmi compagnia. Di tanto in tanto. La pioggia (tac tac tac… tactactac… tctctctctctctctctc… tactactactac… tac tac tac…tac tac…tac…tctttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttctctctctctctctctctctatc…t…) Tu, sempre. Ma, prima della pioggia a irrorarmi pensieri e cuore, più che il suo scrosciare sull’asfalto, ho ancora un bimbo da salutare con occhi di sonno nella sua foresta tropicale di alberi e liane e un improbabile fiume e un sottobosco di leoni e tigri e giraffe a fargli compagnia (e il mio bimbo solo soletto nel rossoarancione del suo letto attende la sua mamma fai la ninna fai la nanna e ha occhi grandi di coraggio per inseguire scoiattoli e pantere in un fantastico viaggio tutte le impaurite sere e tarzan che viene e che va su liane o sugli autobus di città in un bosco di gnomi e maghetti che dormono tutti nei loro letti e tanti indiani fatti prigionieri che corrono corrono su veloci destrieri ad afferrare il dolce sonno dopo ogni mio ritorno dormi bimbo mio bello fai la nanna dormi che è tanto stanca la tua mamma… questo è l’occhio bello questo è suo fratello questa è la chiesina questo è il campanello… drin drin drin drin drin… drin drin drin drin drin… Qualcuno male informato/ o più bugiardo del diavolo/ dice che tu sei nato/ sotto la foglia di un cavolo…// Queste notizie sono prive di fondamento/ ti ha fatto la tua mamma e devi essere contento!... la macchina del capo ha un buco nella gomma,/ la macchina del capo ha un buco nella gomma/ la macchina del capo ha un buco nella gomma/ripariamo ripariamo con la ciùingomma…).  E intanto la pioggia… (tttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttt) e sentirmi protetta da quel cielo che precipitava giù a creare una cortina di fili trasparenti e di suoni slargati e di voci attutite e di umori di asfalto bagnato senza profumo di terra sui miei giorni veloci, stanchi, vuoti di me, dei miei figli, del mio uomo, di mia madre, di te. (…). Pioggia di parole a coprire la pioggia d’acqua. E il cielo in cascata liquida a coprire il ricordo delle ciliege. Le ciliege neppure più un ricordo. Quasi. E, oggi, ricomincio. Riprendo a raccontare. E, come sempre, mi trovi qui tra le mie carte e le mie nuvole. In una nuova casa che ha finestre d’aria e sandali che affondano nel verde di un giardino d’alberi e di rose, lantane e gelsomini e grappoli d’azzurro-pervinca in caduta libera sotto un arco di glicini in fiore. Mi trovi qui, rannicchiata tra braccia invisibili che vorrei forti sui miei vuoti da colmare... vuoti da colmare... anche con un tempo che non può tornare, ma non può essere dimenticato... Raccontare per non dimenticare… Perché i miei nipoti e pronipoti sappiano che la loro storia non è cominciata con i giorni conosciuti, ma con tutti quelli ignorati e da altri vissuti prima che loro si affacciassero al mondo. Perché i giovani conoscano la Storia non dai libri, ma da chi ha lasciato orme di sogni e di dolore lungo le strade che oggi percorrono. Orme che hanno segnato lunghe scie traslucide, come bava di lumaca, sui muri della dimenticanza e dell'indifferenza. Lunghe scie negli occhi di chi ha ancora uno sguardo diviso tra ieri e domani. E il passato attraversa il presente per farsi futuro. E nel presente affondano/affiorano i ricordi> (idem).

Ma i ricordi mi porterebbero lontano e non sarebbe giusto approfittare della vostra già illimitata pazienza nel leggermi. A domani, dunque, a domani: la Giornata Mondiale del Libro ci attende con nuove parole, nuove storie da raccontare… mie, vostre, di quanti vivono sotto questo cielo che è uno e infinito per tutti gli abitanti di questo nostro “pianeta azzurro”. Angela/Lina

 

domenica 21 aprile 2024

Domenica 21 aprile 2024: IL MIO RAPSODICO "SPOON RIVER" CHE MI PORTO NEL CUORE... (continua)

Si va avanti. Si riprende con la speranza di una primavera senza incertezze. Aprile sta per cancellare nuvole e acquitrini per fare spazio al magico incanto della neve in attesa della festosa allegria dei papaveri di maggio, mese che io amo di più fra tutti gli altri per mille e mille motivi. E, intanto, ricomincio con il tenero racconto di Maria Concetta Giorgi, intitolato “Irma e la gatta” che già è motivo di stare bene insieme tra di noi, anche se non siamo a settembre: Un settembre fresco, dopo la prima pioggia, le noci furono pronte per essere raccolte, qualcuna già cadeva sul tetto. Irma sul tetto ci poteva arrivare, c’erano scalette che portavano alla legnaia sopra alla casa. In montagna è così. Di fianco alle scalette, il tetto della vicina di casa e un noce stupendo che lo copriva. I rami scendevano quasi a volerlo proteggere. Non ci voleva niente a salire lì sopra e poi Irma era minuta, un piccolo grillo per corporatura. Stesa al sole settembrino, si godeva gli ultimi raggi caldi, poi cominciò il raccolto. Erano più le noci che mangiava che quelle che raccoglieva. La cassettina si riempì velocemente, ed ecco che tra lucertoline che correvano veloci e file di formiche, comparve lei, una gatta rossa striata, con gli occhi chiari. Annusò la cassettina, il muso tra le noci… poi guardò Irma che si era fermata a osservare incuriosita. Si incontrarono per diversi giorni, Irma sul tetto e lei vicina a cercare un po’ di tenerezza. Si mettevano al sole, il silenzio era rotto solo dalle folate di vento, dai miagolii e dalle fusa della gattina. Settembre finiva, sul tetto era più difficile stare, cominciava a far freddo. Un pomeriggio la gatta arrivò più silenziosa del solito, si strisciò sulle gambe di Irma, poi si allontanò col suo solito fare indifferente. Irma la seguì con lo sguardo fino in cima al tetto, quando la gattina si girò quasi a salutarla, il profilo era cambiato, una pancia prominente si mostrava in tutta la sua bellezza. Fu l’ultima volta che si videro. Tornò la primavera e il tetto si animò nuovamente. Irma salì dalle scalette, assieme alla gatta c’erano tre gattini già cresciuti (mcg).

Inno alla vita e alla primavera che sempre ritorna e ci regala i suoi prodigi. Anche nel nostro giardino si moltiplicano colonie di gatte, gatti, e gattini che ogni mattina ci danno il loro buongiorno e il loro canto di amicizia e libertà. Ve li presenterò un giorno, con le loro personalità ben distinte, la loro astuta intelligenza a renderli predatori imprendibili, i loro problemi di convivenza, il loro bisogno di fusa, di coccole, di fughe… Ma il mio calendario teneramente impietoso continua:

2002-2003-2004: E, nel silenzio feroce che seguì, altri sentimenti perduti, altre emozioni rinate, altre illusioni deluse. Altre unioni. Altri amori: Giuliano, mio figlio, e le sue tante ragazze in una continuità di fughe e di nuovi incontri, nuovi abbracci e convivenze… Daniela e il suo primo amore a cui seguirono altri in un’altalena vibrante di sogni e illusioni. 

2005. E il matrimonio di Ombretta, bellissima nel suo abito da sposa e lo sguardo fiero di suo padre a portarla all’altare in un miscuglio di ansie taciute e di dubbi repressi e pochi giorni di sorrisi e anni di nuove lacrime e nuovi sentimenti e rare armonie.

2006-2007. E le nozze dei nipoti divenuti nel frattempo adulti e i loro bimbi e giorni di rari incontri e di sentimenti conservati nel cuore con scarse possibilità di un abbraccio, di un sorriso, di una confidenza. Le maglie dell’amata parentela si allargano sempre più per il tempo tiranno e gli impegni ad impedire i nodi del cuore da stringere nel cuore. Tra le nostre parole di rimpianto. Tra i nostri vuoti e silenzi. E la mia voglia di andare via che sempre albeggia nella mia anima zingara in cerca di nuovi orizzonti. Se non avessi avuto legami d’amore, e avessi sentito dentro un balzo di leone e non un flebile “ruggito di coniglio”, sarei andata in giro per il mondo alla scoperta degli altri e di me stessa. Ma, persa mamma alle mie braccia, avevo solo cercato una nuova casa per placare il dolore in un luogo senza assenze. Che non sapesse delle antiche presenze.

Dopo il lungo viaggio di mamma verso le stelle, ho cambiato paese e casa e ho cercato di dimenticare ogni dolore, ogni passato. Invano. Ci portiamo appresso tutto quello che siamo, siamo stati e abbiamo vissuto. Senza fare sconti alla memoria che conserva “ciò che non può dimenticare più di ciò che vuole ricordare” (Simone de Beauvoir). Nel frattempo, però, erano spuntate altre foglioline tenerelle sui rami dei nostri alberi fioriti dell’antico giardino: Aurora, la nipotina di Pino, figlia di Marica, e Nicola e Anna Paola, figli di Raffaella e Peppino, nella nostra casa prima che mamma migrasse come allodola senza canto. Prima di trasferirci. Mamma ha avuto ancora un po’ di tempo per tenere i piccoli tra le braccia come fiori di rinnovate stagioni. Troppo brevi per una tenerezza fragile da vivere, e troppo lunghe per noi da ricordare. Con rimpianto Con nostalgia. Come ultimo suo canto.

E così, nel nuovo paese in cima alla collina, respiro un verde d’alberi a confondersi con l’azzurro del mare, presente ai miei occhi e ai miei giorni, e tetti rossi di case bianche e colorate, annidate tra i prati e gli ulivi che degradano fino a toccare le lunghe coste del basso Adriatico. Mi piace qui. Ci sono i lucernari spalancati sul cielo. Amo raggomitolarmi tra il verde e il silenzio e un pensiero di acqua e sale. E un ritorno di lucciole. Ne ho scoperto una, una soltanto, giù in giardino tra i cespugli di rose. Quella lucina, che vado ad osservare trepidante ogni sera nel timore che si spenga, mi conforta e mi accende il cuore di una fragile speranza. Già da parecchi anni le lucciole sono sparite. Con grande malinconia registro questa realtà, preconizzata dagli anni Cinquanta da Pier Paolo Pasolini. Abbiamo perso pezzi di cielo stellato nei nostri prati. A portata di mano. Come mi accadeva da bambina: manciate di stelle viventi da portare a casa. Ma, in questa mia nuova casa, l’aria è ancora un po’ pulita. Qui si può disintossicare anche la mia anima. Un lumicino c’è ancora. Devo fare attenzione affinché non si spenga. E così vado a parlare con la mia lucciola, solitaria come me, appena si accende e ci rincuoriamo a vicenda. Non tutto è perduto. Questa casa mi ha permesso di riprendermi il mio cane-nuvolabianca che ero stata costretta a mettere in una pensione perché nella casa dei lunghi balconi e lunghi corridoi non c’era spazio per lui. Salti di libertà prima, ma subito dopo assalto di cani alla sua docile appartenenza al giardino di erbe e di fiori e vette d’alberi e ombrelli d’ombra. Si salvò solo per poco dalla furia dei suoi simili in branco a difendere un territorio già occupato. Eppure questa casa di smeraldo e un respiro di pini e di rose aveva posto fine allo strazio del mio pianto e dei suoi guaiti ad ogni incontro (reso possibile dalla generosità e dall’amore per gli animali della giovane compagna di scuola di Ombretta e figlia della nostra carissima amica Dina, che spesso studiava con Lizia nella nostra casa) e ad ogni nostro arrivederci. Per oltre due anni. Ma aveva lasciato traccia di sangue e di dolore e una lacrima a scivolargli al nostro nuovo ritrovarci dopo un mese di solitudine perché ero stata lontana. In vacanza in Salento. Come ogni estate. Nell’imperdibile mare di puro cristallo che lo Ionio mi regala. Lui, affidato alle cure d’altre mani. Un cane che lacrima? Sì, raccolsi io quella lacrima di commosso benvenuto alla sua mamma-padrona. Dopo la ripresa, ha scodinzolato libero nel nostro giardino per altri cinque anni. In perenne attesa delle mie sempre più rare carezze (per via delle gambe sempre più deboli a sostenermi) e dei miei quotidiani occhi di tenerezza dal terrazzo a farlo sentire comunque amato. Poi anche Dylan mi ha lasciato con uno sguardo lungo di straziato fedele incondizionato amore mentre lo portavano, malato e stanco, a morire. Altro triste addio. Altro rimpianto. E nell’anima i tanti animali amati e perduti. Piccina, Lola, Ciccio, Fiorello, Nerina…  Neve, Luna e… 

Quella sera del suo perdersi per sempre alla mia carezza eravamo andati tutti noi al matrimonio di Raffaella, la figlia dei miei cognati Tonio e Maria Nilde, con Saverio, il suo ragazzo con qualche anno in più e tanto amore. La mia carissima Maria Nilde, persa nelle brume incerte di un Altrove che spero sia moltiplicato di stelle e di luce. Un matrimonio fiabesco tra onde di mare e un cielo d’alberi di foglie commozione sorrisi. C’eravamo tutti, tranne la madre che pure c’era tra quelle onde, quelle foglie, quei sorrisi. Io e i miei figli stemmo tutta la sera e parte della notte in attesa di ricevere notizie di nuvolabianca dal veterinario che se lo era portato con sé nel tentativo estremo di salvarlo. Fu una notte lunga di festa sognante, ma altrettanto lunga di attesa e di pianto soffocato e da tutti ignorato. La mattina fu triste notizia della sua fuga solitaria tra le solitarie stelle, che si accendono anche dell’incolmato amore dei nostri figli a quattro zampe e tanto cuore.

E, ormai, con il cuore gruviera, sopravvivo sotto un cielo che mi riporta ogni giorno ancora un respiro di cielo. In questa casa che ha occhi grandi spalancati sull’azzurro del giorno e il velluto della notte. Sì, mi piace questa casa dove siamo vissuti io e Primo per circa sette anni insieme. E con Raffaella, Peppino e Nicola e Anna Paola: la quarta generazione. In pensione e con tre figli andati via, uccelli migratori con rari ritorni, io e Primo abbiamo riempito questa casa di silenzi e di parole. Io le ho scritte persino sui muri, le parole, lungo le scale, sotto i lucernari. Sì, abbiamo continuato a scrivere. Molto meno a raccontare. A raccontarci. Il verde è fonte d’ispirazione e qui c’è tanto verde. E c’è una striscia di mare che s’inarca fino a scoprire i monti del Gargano su quel golfo, culla incantata di sogno, che tanta parte ha avuto nel far nascere il nostro amore. Sì, scrivo sempre. Scrivo ancora. E ancora ricostruisco pezzi di me mancanti. E ancora perdo altri pezzi di me. E, infatti, ho perso anche l’altra Rosa, “Rrrosetta”, come la chiamava mio nonno. Rosa (dai dorati capelli) con la sua eleganza e il suo immutato affetto per tutti noi. Mi sono rimasti di lei i fantasiosi bellissimi occhiali firmati e tanti ricordi e molti rimpianti. Avrei dovuto frequentarla di più, invitarla più spesso nella mia casa. Il lavoro forsennato ha strozzato incontri e sentimenti. Parole.

Il giorno prima che anche lei andasse via per sempre, colta da un presentimento a strizzarmi pensieri e ore, la chiamai sul cellulare. Mi rispose con una voce tremula e insicura. Quando le dissi il mio nome e se si ricordasse ancora di me, la sua voce si fece più forte “eh, nientemeno, non devo ricordarmi di te, sei la mia amica carissima. Sei Lina”. “Come stai?”. Ma non attesi risposta perché non sentisse le lacrime a fiotti che si stavano riversando nella mia voce. Per non sentire il suo pianto sommesso che si stava facendo largo tra le sue stente parole. Che presto si sarebbero spente per sempre.

Rosa (dai dorati capelli ormai argentati), molti anni prima, l’avevo incontrata per caso alle giostre in un tiepido giorno di ottobre e mi piacque subito con i suoi riccioli biondi, un sorriso catturante e la sua maglietta di filo di scozia sul seno già sbocciato e il corpo snello. (quella tua maglietta fina/ tanto stretta al punto che m’immaginavo tutto/ e quell’aria da bambina… Baglioni più tardi avrebbe cantato…). Era alta slanciata luminosa. Aveva quasi sedici anni e io solo tredici da poco compiuti. Mi avvicinai di slancio e, sorridendole, l’apostrofai: “Ragazzina, come ti chiami? Vuoi diventare mia amica?”. Al suo sì gentile e premuroso, mi parve di volare. Mi sentii più alta anch’io e più grande. “Mi chiamo Rosa”. “Quanti anni hai?”. “Quindici a febbraio, ma ormai sono quasi sedici”. Ero degna della considerazione di una quindicenne che stava per compiere sedici anni. Non potevo provare gioia più grande. (Chissà perché mi è sempre piaciuto avere amiche e amici con più anni di me. Anche se poi sono stata molto amata da alcuni con meno anni. Non ho mai approfondito questo aspetto della mia e della loro personalità. Occorre indagare per scoprire in me qualche altro vuoto ancora a me sconosciuto, magari da colmare o rattoppare prima che sia troppo tardi).

“Dove abiti?”, le chiesi subito, “posso venire qualche volta a casa tua a chiamarti?”.

“No, se mi dici dove abiti tu, preferisco venire io da te. Sai, sono più grande…”, fece con una punta di supponenza allegra nella voce e nell’atteggiamento.

“Mi raccomando, ti aspetto”, feci io col timore che non avesse alcuna intenzione di diventare amica di una mocciosetta di tredici anni appena.

Invece, venne la sera stessa a casa e divenne nostra ospite stabile e la mia maggiore confidente. La mia più grande amica tra tutte le altre mie amiche del cuore, che avevano l’unico limite di essere mie coetanee, mese più mese meno. E presto anche il nonno e la nonna l’adottarono come settima nipote, ma il numero era sempre crescente. C’era sempre un posto da aggiungere a tavola.

Rosa (dai dorati capelli ormai argentati) ebbe poi qualche fidanzato e poca fortuna in amore. Perse la madre quando era ancora ragazza, e da quel momento si dedicò con grande cura e tenerezza a suo padre e ad una zia, semplice e buona, che viveva con loro, e ai suoi due fratelli. Poi, fece anche da mamma al suo primo nipote, nato una settimana dopo la mia Raffaella. Ma, dopo alcuni anni, le morì il fratello più piccolo, ancora giovanissimo e da lei tanto amato, in un incidente d’auto, e da quel momento perse ogni gioia di vivere e ogni interesse per gli altri. Aveva sacrificato, nella volontaria clausura, la nostra amicizia, ma non il profondo affetto per tutti noi. E non la vedevamo quasi più. Solo raramente ci faceva giungere sue notizie. O passava per un rapido saluto. Poi me ne ero venuta in questa mia nuova casa e i nostri fili si erano ormai dispersi quasi del tutto. L’ultimo incontro, molti anni fa, si era concluso con un dolente rimprovero da parte sua:

“Fafarella (così era solita chiamare Raffaella) si è sposata e non mi hai invitata perché?”.

(Come dirle i perché senza risposte che tracciano solchi nell’anima di chi chiede e nell’anima di chi non può rispondere, sapendo di altri solchi che bisogna evitare per sopravvivere, per salvare sentimenti e dimenticare attese? Come dirle che avrei voluto tanto invitarla ma che non mi era stato possibile per tanti impedimenti che non erano spiegabili ora che non avevamo più una frequentazione quotidiana da permetterci la comprensione profonda di noi? Che pian piano i lunghi silenzi ci avevano reso estranee a confidenze e problemi? Io non sapevo quasi più niente di lei, lei di me. Certo, l’affetto era rimasto intatto ma non la complicità, l’intimità. Anche l’amicizia si nutre di presenza e di gesti e di parole).

Poi, come fulmine a ciel sereno, la notizia della subdola malattia. E quella telefonata soffocata nei singhiozzi. Il giorno dopo seppi che aveva raggiunto sua madre e suo fratello, ma sono sicura che passò a salutare anche i miei nonni, che per anni l’avevano colmata di tante attenzioni, di tanto amore. Per lei, e per i tanti nostri amici, erano “u nònnə e la nònnə”. Sempre.

E non era solo un modo di dire dei ragazzi nei riguardi degli anziani. Era un saluto pieno d’affetto. Un senso di appartenenza.

A suo padre ultranovantenne non dissero mai della sua scomparsa. E lui attese invano ogni giorno il suo ritorno fino a quando la raggiunse dove avrebbe incontrato anche sua moglie e suo figlio, e tutti gli altri perduti in lunghi anni di tante primavere e altrettanti inverni.

 

… T'incontrai alle giostre della sagra di paese/ e mi confusi nei riccioli tuoi di grano/ e seni morbidi da invidiare/ ragazzina io ancora da fiorire/ negli occhi di luna saltimbanchi funamboli/ trapezisti e cantastorie di paesi lontani/ Vissero i nostri giorni d'erba/ in un canto di mare e pirati oltre la riva/

e confidenze d'amore conchiglie diari/ con chiavi e lucchetto e segreti da spartire/ girasoli giganti d'ingenue cartoline/ al vento dei sogni che ci attraversava/ come neutrini negli universi e le intese…

(stralcio di “Tutto come fosse la prima volta”, in <Semi di poesia in azione>, L’amicizia, 2016).

E anche oggi le lacrime mi impediscono di continuare. Non so fare i conti col dolore. Mio. Degli altri.

Buon sabato di pioggia e di vento col glicine che danza nel giardino per sollecitarmi a non disperare e a rinfrancarmi con la sua silenziosa musica che esplode di cielo… a domani. Angela/Lina

 

venerdì 19 aprile 2024

Venerdì 19 aprile 2024: IL MIO RAPSODICO "SPOON RIVER" CHE MI PORTO NEL CUORE... (continua)

Piove oggi. Tanto. E la pioggia, che pure mi piace molto, mi sta intristendo il cuore. Per alleggerire pensieri, riprendo. Ma, anche per questo, prima di parlare di altre perdite che colmano il cuore di un “vuoto/pieno”, desidero riportare qui una lettera che inaspettatamente mi è giunta da Maria Concetta Giorgi: Carissima Lina, in questo momento così difficile per me, arrivano le tue parole. Io l’idea della morte “vissuta” in serenità, non la capisco proprio. Magari avessi avuto un nonno come il tuo! Capace di trasmettere leggerezza, soprattutto di fronte all’unica certezza che abbiamo, morire cioè. Anche io ho sempre preferito chiamare il luogo di sepoltura Camposanto e non Cimitero, a parte il discorso artistico che credo li differenzi, io nel Camposanto ci vedo la dimora dei Santi. È il Campo dei Santi. Ecco, questo, nella mia difficile comprensione della morte mi solleva. Sarà per quell’alba del dopo di cui parli, sarà perché la parola stessa mi dà speranza. I tuoi ricordi diventano i miei, l’ho già detto, ma è come li scrivi che me li rende più cari ancora. Io lo “schianto” delle abitudini di una casa, dei suoi abitanti, dei volti, dell’amore per loro, degli odori che c’erano, di quello che si mangiava e accomunava tutti, ce l’ho come te nel cuore. Io penso (ci voglio credere), che un giorno la polvere del silenzio si alzerà e risentiremo tutte le voci, noi ci rivedremo tutti. Solo questo mi dà respiro ancora. Mi permetto di aggiungere una cosa che volevo tenere solo per me, ma che oggi ho il coraggio di svelare. Per una zia che ho molto amato, per la sua casa in montagna, per un camino scavato dentro al muro, per le sue stoviglie e l’odore di umido, per il suo “acquaio” di pietra in cui l’ho vista tante volte lavare i piatti, per tutti coloro che lì hanno vissuto o l’hanno solo visitata e ora non vedo più, ho scritto una poesia molto tenera, tanto tempo fa. Pochi giorni fa, mio cugino Fabrizio, figlio di questa mia zia, l’ha voluta far scrivere sul muro di quella casa. Io ne sono orgogliosa e con te divido questo orgoglio postando due foto. I ricordi evocano immagini e se queste immagini prendono forma e consistenza, noi, i nostri amati cari, vedremo e sentiremo ancora lì. Grazie sempre, Angela D Leo, uno scritto porta ad altro scritto, e niente finisce. Maria Concetta. Grazie Fabrizio! Peccato per le due foto molto belle e suggestive che non posso condividere nel blog. Ma ringrazio anche io Fabrizio per la bellissima idea che ha realizzato sul muro dell’antica casa della mamma. E ringrazio te con profonda commozione per queste tue meravigliose parole. E devo precisare che il tuo segreto non è più un segreto perché hai postato la lettera sulla mia pagina FB. Per questo io l’ho riportata sul blog. Molti l’hanno già letta. E ora ecco anche la tua poesia per chi, come me difficilmente potrà recarsi a   Corniolo, frazione del comune di Santa Sofia (Provincia di Forlì-Cesena). Maria Concetta, infatti, vive a Cesenatico. Ma ecco la delicatissima poesia intitolata “Era verde la persiana”: È chiusa quella finestra/ è disperatamente chiusa/ rimane verde la persiana./ Chiusi lì dentro i miei anni,/ lì i miei ricordi/ cos’altro dovrò sopportare?/ Inesorabilmente troverò tutto davanti/   cucchiaini e credenze,    /    sedie di legno.   / Sentirò il profumo del freddo/ la legna in inverno/ il fresco primaverile uscirà aprendo i cassetti./   Il giorno che spalancherò   /   voleranno lenzuoli bianchi   /   fiumi di polvere si alzeranno   / rivedrò il camino scavato nel muro /   ci saranno di nuovo tutti   /    tutti loro.

Come non commuoversi? E Maria Concetta mi ha mandato un delizioso racconto in cui la protagonista è Emma, la zia tanto amata. La potrete leggere nelle prossime pagine del nostro blog. I buoni sentimenti vanno condivisi. Ci arricchiscono sempre di conoscenze e di speranza. Ma ora è tempo di riprendere a ricordare chi ho amato e perduto. Il mio personale calendario continua: dopo il 1995, ben presto un’altra terribile perdita cominciò a profilarsi all’orizzonte sempre più insanguinato di vuoti e di dolore.

1996: La mia amata cognata Maria Nilde, con cui avevamo condiviso vacanze e confidenze e serate in allegria e la gioia di una maternità che ci faceva complici e chiacchierine oltre ogni altra nostra bellissima intesa. Da un anno aveva cominciato la salita di un calvario durato due anni e che ben presto l’avrebbe portata sul Golgota della sua arresa resistenza. Guerriera di una sconfitta che le precludeva impietosamente la possibilità di continuare ad avere braccia d’amore per sua figlia, ancora tanto giovane e con lei in simbiosi, e occhi di luce per l’ineguagliabile suo compagno di vita. Lei, quasi seconda madre per Daniela, che condivideva con sua figlia Raffaella molti giorni di sole e altrettante notti di stelle da raccontarsi per esprimere desideri su quel mare di incanti che ancora tutti ci stregava. In quella culla meravigliosa di monti e di mare, che tanta storia di noi conservavamo intatta nel cuore: Manfredonia!

Ricordo un ultimo abbraccio, con Nicola a mettere i primi passi per raggiungerla, e Raffaella, mia figlia, a massaggiarle i piedi dopo i suoi occhi a pregarla di farle quell’ultima carezza… Poi, alcuni giorni dopo, sotto una pioggia battente, la corsa in macchina per il saluto che sapeva di chiesa gremita, di lacrime più rovinose della pioggia e degli occhi spenti di sua madre, vinta e disperata.  

(Maria Nilde mi manca anche se con mio cognato e con la sua bambina, oggi non più bambina ma madre di due splendidi figli quasi adolescenti, non ci incontriamo mai e ci sentiamo molto raramente. Solo ai matrimoni e ai funerali. Abbiamo entrambi una vita socio- culturale molto intensa a cui bisogna aggiungere il suo impegno politico dal 1996 ai nostri giorni. Frequentissimi un tempo, oggi i nostri messaggi sono molto rari. Sono quelle lettere d’amore che non giungono mai a destinazione. Rimangono nel limbo delle buone intenzioni). Purtroppo anche questo accade nella vita… e continuo a sfogliare il calendario per meglio ricordare, meglio dimenticare…

Nel 1998, intanto, Primo, a causa della pressione alta, da tempo diagnosticata e da lui sempre   trascurata intenzionalmente per evitare di prendere la pillola per tenerla sotto controllo, ebbe alcuni preoccupanti episodi di TIA che lo costrinsero a vari ricoveri in diversi ospedali del capoluogo e in tutta la provincia. Poi, il suo costante miglioramento, dopo il ricovero presso “La Casa di Sollievo Della Sofferenza”, voluta da Padre Pio a San Giovanni Rotondo, ci restituì un po’ di serenità. E gli diede il coraggio di fare domanda di pensionamento. Inizio di nuova vita che si intrecciò ben presto con un nuovo germoglio nella nostra casa.                                              

1999: ANNA PAOLA. E fu nuova magia quel germoglio di rinnovate promesse. La sua nascita nel giorno in cui rinasce primavera. Tripudio di fiori. Luce di sorrisi. Nuovi giorni da vivere tra progetti e rimpianti. Giochi e attese. Impegni e viaggi. Passi ritrovati senza più l’allegria delle passate sintonie, vergini di incontri altri e altri tormenti, vissuti nei silenzi delle sere delle spente risate. E, per fortuna, solite Vacanze d’estate. E il nuovo millennio a scoprirci tutti con una riaccesa speranza nel cuore, tra brindisi e girandole esplodenti di luci e la nostra allegria, che ignorò le lacrime di mamma in un presentimento che non volle dire.

2000: L’ultima estate serena. Ora, in un villaggio chic a pochi chilometri dalla bellissima Otranto, terra di martiri e di mare, terra di riproposti incanti nelle stradine di souvenir e ricordi amari di turchi e saraceni. E poi ancora altre rive e tramonti in quella penisola di vento e d’ulivi baciati dal sole, nella più grande penisola dalla caratteristica forma di uno stivale, la nostra bella Italia, che il mondo attraversa, percorre, invade e invidia. Ma, con le prime piogge d’autunno, il cielo si coprì di nembi e di bui giorni alla deriva: Anna Maria e la necessità di un intervento a cuore aperto. E mamma e Gianni e le figlie sempre con lei. A pregare per il suo ritorno a casa.

Io, in un’altra clinica a Roma, dove dovemmo ricoverare Ombretta per il suo ricorrente problema da malattia autoimmune, a pregare con il suo ragazzo perché tornasse a casa, dopo mesi di terapia sbagliata e corsa in un altro centro nel tentativo di salvarla.

Lo stress piegò la delicata fibra di mamma e si era ormai a dicembre del nuovo millennio.

1° aprile 2001:

Fu un devastante addio che ci vinse solo un anno e pochi mesi dopo quel Capodanno, che segnò a caratteri cubitali nella Storia il primo anno di un nuovo secolo a regalarci illusori refoli di risorte umane utopie. Perdemmo MAMMA, in un lago di disperata corsa al suo sorriso. La perdemmo in quattro mesi di angoscia su alte montagne innevate e profondi abissi di nuove speranze e nuove disperazioni. E il suo sguardo sempre più dolente e malinconico. Pensieroso e stanco. E l’ultimo nostro Natale e l’ultimo Capodanno, vissuti insieme in quella che era stata la nostra casa del gelso e delle rose e che ora è una villa bellissima al centro del paese, abitata da Anna Maria e Gianni, e a cui fanno capo Isabella e Nicoletta con la loro nidiata di bimbi ora adolescenti o quasi. Tutti nella antica casa senza più il gelso e con poche rose ma con tanti altri alberi e fiori… Ma allora allora allora… Allora fu tempo di nuove lacrime per tutti, nascoste maldestramente tra ciglia di dolore per un mostro tentacolare che si era ripresentato dopo anni di quiescenza e di tranquilla certezza di averlo debellato senza gravi danni per la sua salute. Mamma. E il suo andare, volto preoccupato e passo leggero e il cappellino verde di morbida lana a incorniciarle il viso segnato, con la figlia più giovane, sua compagna di vita ormai, in un Centro specialistico al Nord, dove operava un mago della chirurgia oncologica. Furono tre mesi altalenanti di notizie mai chiare mai scure.

E la decisione di raggiungerla io e Lizia, con Pino alla guida della sua macchina in volo sulla corsia di sorpasso in sole sei ore per correre da lei, e Anna Maria impossibilitata per quell’intervento a cuore aperto, che andava superando lentamente e a fatica, e il nostro cuore ad anticipare chilometri e incontro. E Anna Paola che nella sua casa festeggiava senza di me il suo secondo compleanno. Giorno d’inizio primavera. Giorno dei ciliegi in fiore. 

Mamma era lì, inerme e sperduta, spaurita e gracile, dopo due interventi che ci dissero risolutori, ingannandoci. Fiorivano le prime margheritine di marzo… e bianche rose d’ogni mese ornavano il viale che portava alla sua camera al pianterreno di quell’immensa clinica dei miracoli. Dalla finestra potevamo vederla prima che ci fosse permesso d’incontrarla e lei ci sorrideva stanca e teneramente aggrappata a quel primo abbraccio da lontano, nell’attesa di riabbracciarci con mani e braccia e tremori intrecciati. E sollevava le mani in segno di saluto ed erano affaticate farfalle in lento volo. Pioveva in quei giorni di ansia e di paura. Una pioggia né buona né cattiva, una pioggia d’attesa. Poi… improvvisamente il sole. La sollevammo dal suo letto di spenta speranza perché potesse lasciarsi riscaldare dal tepore beneaugurale di quei raggi dorati. Ma lei rimase con occhi vuoti senza guardarlo. (“Mamma, hai visto? C’è il sole! È finalmente una bella giornata!”. Silenzio e occhi spenti. “Mamma, possibile che non ti rallegra il sole? Guardalo. È un dono tutto per te oggi!”. Silenzio e occhi spenti. “Ma come è possibile che non ti si allarga il cuore per questo raggio di sole dopo tanta pioggia?”, stupidamente ancora io, mentre gli altri figli si astenevano. Silenzio e occhi spenti. Silenzio. Laghi di pianto trattenuto gli occhi, e il suo abbandonarsi esausto sui cuscini, noncurante del sole della bella giornata delle mie parole a rincuorarla.

Alcuni anni dopo, solo qualche anno fa, anch’io ho guardato il sole con indifferenza da una finestra d’ospedale dove stavo lottando per sopravvivere. Mi sono ricordata di lei e del suo rifiuto inerme. Non più quel suo sorriso sempre pronto e generoso nel lenire ferite. Compresi e mi disperai per quella mia insistenza fuori luogo in un momento così difficile e doloroso per lei. Le avevano annunciato il terzo intervento nell’arco di appena tre mesi. Ed era disorientata. Impaurita. Disperata. Anch’io non ero in condizione di godere del sole e della sua luce luminosa in quel centro di riabilitazione in cui mi sentivo debilitata. Anch’io evitavo di guardarlo per non provare la ferita di dovergli probabilmente dire addio. Come avevo potuto pretendere che lo guardasse lei che aveva i giorni contati e lo sapeva? Come poteva sentirsi rasserenata, e paga di quel raggio di sole? Non avevo capito niente di mia madre e della sua anima prostrata e vinta!

Come si può essere così superficiali, anche quando le nostre parole sono dettate dall’amore? Anche quando sono dettate soltanto dalla preoccupazione di alleviare le sofferenze di chi amiamo? Evidentemente si può. (Ma oggi mi chiedo: sappiamo veramente cosa sia giusto dire e cosa evitare? Quante incomprensioni in un atto di amore… Eppure accade. Sì, accade. Siamo incapaci di totale comprensione di ogni altro da noi. Fosse pure nostra madre. C’è qualcosa in noi di veramente unico e irripetibile, che è solo ed esclusivamente nostro, che ci impedisce di comprendere appieno l’altro e di farci comprendere pienamente dagli altri. Si salva la nostra individualità ma non la nostra socialità. La nostra affettività. Miliardi e miliardi di stelle, ognuna col suo nome, la sua costellazione, la sua distanza anni-luce dall’altra. Di qui la difficoltà di ogni comunicazione. Di superare il vuoto che ci separa, pur vivendo spesso nella stessa galassia). Quella strana inevitabile condizione di imperfezione e di non totale comunicazione era purtroppo accaduta anche tra me e mamma. Mio malgrado Suo malgrado. La salutammo mentre la portavano in sala operatoria con l’ultima figlia che la seguiva passo passo, e mi sembrò un uccellino spaventato e tenero con quella sua cuffietta di lana rosa per non prendere freddo ed era una bimba alla prima passeggiata all’aperto. Aveva la stessa aria stupita, non d’incanto infantile per la scoperta del mondo, ma di disincanto per un mondo conosciuto amato ignorato perduto. Ci aveva raggiunto anche Mimmo, che porta il nome  di mio nonno modernizzato e che fisicamente gli somiglia molto. Ed ora eravamo tutti con lei e per lei a sperare e a pregare. Mancava solo Anna Maria, presente con continue telefonate. Il chirurgo-mago ci tranquillizzò, ci disse che potevamo tornare a casa perché di lì a qualche giorno sarebbe tornata anche lei. Avremmo dovuto usare accorgimenti e precauzioni, ma il peggio era scongiurato. Rincuorati, ripartimmo per preparare la sua camera con tutti i comfort ad accoglierla. Durante il viaggio di ritorno, facemmo progetti per lei. Io mi ripromettevo di esserle più vicina come non lo ero mai stata per tutti gli anni precedenti. Ora sarei stata più libera (il 2000 aveva segnato la interruzione a tempo indeterminato dei Concorsi nella scuola!) e mi sarei dedicata esclusivamente a lei. L’avrei portata in vacanza con me. Saremmo state finalmente insieme. Progetti che ebbero il respiro breve di quel raggio di sole in quei giorni di interminabili piogge di inizio primavera, che tardava a giungere e che io sognavo per lei tiepida e con passi di rugiada. Il luminare avrebbe dovuto dirci che “il peggio sembra scongiurato”, non che “è scongiurato”.

Quella notte del ritorno sognai mio nonno. Stavo camminando sull’orlo di un burrone di cui non vedevo la fine, tanto buio era il fondo da non distinguere se vi fosse un bosco fitto di alberi cupi o il mare con la sua nenia sommessa o la pianura con i suoi campi coltivati. Mi sentivo sola e disperata e non sapevo perché stessi camminando proprio sul ciglio della strada in quel silenzio spettrale e in quella oscurità così spaventosa. Ad un tratto, lo vedevo seduto proprio lì sul bordo di quell’orribile precipizio a guardare nel vuoto. Lo invocavo, dapprima senza voce. Poi, avevo preso a chiamarlo con voce sempre più forte e disperata, ma non si girava. Ostinatamente continuava a guardare verso l’abisso senza rispondermi e senza voltarsi. Sembrava sordo ad ogni mio richiamo. Mi svegliai sudata e spaventata con un brutto presentimento, confermato da una telefonata concitata che ci informava che stavano portando mamma in ambulanza con il pericolo che morisse per strada. Purtroppo mamma aveva avuto un improvviso repentino peggioramento. Una dottoressa, nostra cara amica, Teresa A., si assunse la responsabilità, con grande coraggio, di permettere il trasferimento, da quell’ospedale del Nord nel profondo Sud della nostra casa, in un’autoambulanza privata, con lei sempre vigile al suo fianco e con nostra sorella, attento angelo a colmarla di carezze. Giunsero stremate entrambe, madre e figlia, tra lacrime brevi, e parole affaticate e non sempre lucide. Due giorni appena rimase con noi tra spasimi che ci destabilizzavano e tenui sorrisi di affettuosi addii. Ci lasciò stanca di aspettare e di soffrire all’alba della domenica e ci sembrò un pesce d’aprile, uno sberleffo atroce sul nostro pianto a lasciarla andare. Capii allora il perché dell’ostinato silenzio di mio nonno. Era il suo modo di dirmi “non posso farci niente, questa volta non posso aiutarvi”. Anche Teresa, la vedova di Filippo, figlio adottivo del nonno, quella notte aveva sognato suo marito che le diceva che era passato a salutarla perché era venuto a prendere comare Melina, la sorella che non aveva mai avuto e che aveva tanto amato. Per portarla tra le stelle da tutti gli altri che erano in attesa di riabbracciarla. Si affrettò a raccontarcelo tra le lacrime mentre stava lì con noi a darle l’ultimo bacio. E finalmente la sentimmo al sicuro tra le braccia che tutti accolgono con infinito amore.   

E solo dopo, solo dopo ho capito molte più cose di lei. Della sua sofferenza silenziosa. Solo dopo ho sgranato i miei tanti rosari dei comportamenti sbagliati con lei, anche con lei. I lunghi silenzi. I rarissimi incontri. La solitudine dolente che le procuravo (ti ho persa vivente… non ti preoccupare fai le cose che devi fare… vieni quando puoi venire… chissà se ti rivedo ancora…)

Ed ora che mi manca come il respiro, lei non c’è nella sua casa per andarla a cercare e coccolarla con tutte le confidenze mai più sussurrate, con i baci mai più dati, con le carezze che avrei voluto depositare sulle sue guance di pesca chiara. Mi conforta a malapena il ricordo dei rari incontri nella sua casa e del mio prenderle la mano per coprirla di teneri tocchi leggeri con le labbra e i suoi occhi si slargavano di luminosa accoglienza in uno sguardo di illimitato perdono…

E anche oggi non posso continuare. Ho lacrime cocenti ad impedirmelo. A presto. Lina